- Categoria: Studi e articoli sulla disabilità
- Scritto da Massimo Mangani
Teorie e tecniche educative relative all'autismo infantile: una panoramica - La
Article Index
La "fortezza vuota" descritta da Bruno Bettelheim
Una delle teorie più affascinanti sull’autismo è sicuramente quella di Bruno Bettelheim, descritta in modo esemplare in una delle sue opere più importanti: "La fortezza vuota".
L’autore, uno dei maggiori psicoanalisti infantili, ha avuto una vita assai dura, è scampato ai campi di sterminio nazisti ed è morto suicida in una casa di riposo nel Maryland (USA) all’età di 87 anni.
Anche se aspetti della vita personale di uno studioso possono apparire superflui nell’analisi delle teorie elaborate, nel caso di Bettelheim sono invece fondamentali.
Il primo approccio di Bettelheim con un bambino autistico avvenne all’incirca verso il 1930, nello studio del suo terapeuta, tale Dott. Sterba.
Nel 1932 Bettelheim accettò di prendere in carico una bambina autistica americana su richiesta di Anna Freud.
La terapia avrebbe dovuto svolgersi in un ambiente adatto a ristrutturare totalmente la personalità della bambina, ricostruendone la vita e quindi Bettelheim se la prese in casa con sé, tenendola per circa sei anni, fino a quando una notte di primavera del 1938 la terapia fu interrotta dalle SS che arrestarono Bettelheim per le sue origini ebraiche e lo deportarono a Dachau.
Fu proprio "grazie" a questa esperienza estrema che lo studioso si rese conto dei cambiamenti di personalità che potevano intervenire negli individui.
Come descritto da Fratini nel suo saggio su Bettelheim, "la Gestapo aveva costruito un laboratorio sperimentale per verificare la possibilità di annullare l’identità e la personalità degli individui fino a trasformarli in "uomini massa"" (Fratini, 1993).
I traumi subiti dai prigionieri, le torture, le condizioni di vita disumane provocavano la caduta dei controlli dell’Io e del Super-Io, dando luogo a comportamenti schizofrenici e provocando uno stato di completa dipendenza e di identificazione con gli aguzzini delle SS.
Alcuni individui parevano rimanere privi di qualsiasi emozione ed iniziavano ad obbedire incondizionatamente agli ordini dei torturatori, questi venivano chiamati "mussulmani".
Proprio comparando questi individui con i bambini autistici, Bettelheim elaborò la propria teoria sulle cause di questa patologia e sulle strategie necessarie ad attenuarla.
In effetti, seppur per cause diverse entrambi sembravano vivere una analoga esperienza del mondo.
Mentre per i prigionieri nei campi di sterminio la realtà che li traumatizzava era quella esterna, per i bambini autistici sarebbe quella interna.
La grossa differenza è che i bambini autistici non sono in grado di comprendere la differenza fra questi due tipi di realtà, vivendo l’esperienza interiore come una rappresentazione reale del mondo.
In entrambi i casi tuttavia l’isolamento rispetto al mondo esterno e la "rassegnazione" rispetto agli eventi costituirebbero vie di fuga da una realtà altrimenti insopportabile.
Ma che cosa può determinare in un bambino apparentemente normale un desiderio di fuga così estremo dalla realtà?
Secondo Bettelheim questo sarebbe determinato dall’ "interpretazione da parte del bambino dell’attitudine negativa con la quale gli si accostano le figure più significative del suo ambiente" (Bettelheim, 1967).
Il bambino proverebbe una sorta di forte rabbia che provocherebbe a sua volta un’interpretazione negativa della realtà, la quale non sarebbe confutata da esperienze benigne data la scarsità di tali esperienze in età precoce.
In pratica il neonato, interpretando negativamente i sentimenti e le azioni della madre, si distaccherebbe da lei progressivamente, provocando anche un distacco della madre da lui.
A questo punto si genera un’angoscia sconvolgente per il bambino che si trasforma presto in panico provocando l’interruzione del contatto con la realtà.
Per arrivare a questo punto è necessario che il bambino percepisca la fonte dell’angoscia come immodificabile.
Il sentimento negativo percepito dal bambino è il desiderio dei suoi genitori, e della madre in particolare, che egli non esista.
Bettelheim non esclude che possano esistere altri fattori che facilitano l’insorgere dell’autismo, come alcune lesioni organiche, ma resta il fatto che a scatenarlo è il sentimento di annientamento che percepisce intorno a sé.
Oltre a cercare le cause scatenanti della patologia, Bettelheim dedicò molta parte della sua vita ad educare questi bambini, e sicuramente l’esperienza della Scuola Ortogenica di Chicago, di cui fu direttore per 30 anni, costituisce una pietra miliare nel campo dell’educazione speciale.
L’intenzione era quella di accogliere i bambini gravemente psicotici in un ambiente che fosse l’opposto dei campi di sterminio, dove fosse cioè tangibile una forza positiva che permettesse di ricostruire la personalità degli individui, in contrapposizione alla forza maligna che la annientava nei campi nazisti.
L’ambiente dunque era il centro dell’intervento educativo, che non doveva limitarsi a brevi sedute di psicoterapia, ma funzionare 24 ore su 24.
I momenti "critici" della giornata come il risveglio, l’igiene personale, i bisogni corporali, le interazioni con gli altri etc… dovevano costituire il punto di partenza della terapia globale a sostegno dell’Io; l’equazione era dunque "AMBIENTE=IO AUSILIARIO".
Alla base del rapporto educativo fra il personale della scuola e i bambini doveva esserci l’ "empatia", cioè la condivisione delle emozioni; gli educatori dovevano essere in grado di provare i sentimenti dei bambini per poter rendersi conto dell’esperienza provata da essi e poter intervenire adeguatamente.
Anche in questo caso una trattazione esauriente del lavoro di Bettelheim richiederebbe la stesura di una lavoro estremamente ampio, quindi mi limiterò a questi cenni essenziali per poter proseguire con l’analisi di altre teorie sull’autismo.