- Categoria: Intercultura e scuola
- Scritto da Patrizia Marchegiani
Intercultura, non uniformità! Riflessione sul Natale a scuola
“Abbiamo quattro bambini non cristiani in sezione! Ma come facciamo a parlare del Natale a scuola?!”
“Nella vostra scuola organizzate la tradizionale recita di Natale? Noi vorremmo… ma non possiamo più, alcuni genitori protestano…”
“Ma no! La recita di Natale si può fare! Basta parlare solo della pace … o delle renne di Babbo Natale!”
“E il presepe si può fare?”
“Noooo! Ma che scherzi!? Il presepe è altamente offensivo! Più ancora del Crocifisso!”
“Che addobbi facciamo? Le stelline alle finestre possono andar bene?”
“Ma come ci pensi! Le stelline sono troppo allusive della Notte di Natale…Bisogna trovare un simbolo più laico e rispettoso della multiculturalità … È meglio l’agrifoglio!”
Torno ad insegnare a scuola dopo alcuni anni di assenza, proprio nel periodo pre-natalizio, e trovo maestre sempre più disorientate e… “impaurite”. Trovo maestre che si impegnano in equilibrismi assurdi per dire e non dire, per fare e non fare, per essere e non essere.
Anzi: per poi inesorabilmente finire in un ibrido “non essere”.
In filosofia -si pensi alla dialettica hegeliana- si parla di “sintesi”, solo se prima si sono poste “tesi” e “antitesi” ben definite e distinte.
Analogamente, la comunicazione, il confronto, l’integrazione presuppongono e si danno solo ed esclusivamente nella diversità, nella distinzione, nella molteplicità: e dunque nel mantenimento e nella consapevolezza della peculiare ‘identità’ di ciascuno degli interlocutori, non nel suo diniego. Se l’identità si annichilisce e si perde nell’alterità, verrebbe a mancare la conditio sine qua non, il presupposto necessario alla comunicazione e all’incontro tra più. ‘Confronto’ e ‘comunicazione’, diverrebbero allora sinonimi di ‘appiattimento’, ‘uniformità’, ‘omogeneità’, ‘monoliticità’… Insomma, non esisterebbero più.
Allo stesso modo -credo sia ovvio nel sentire comune di tutti-, in una coppia, non c’è maggiore comunicazione o intesa (e tanto meno un migliore rapporto, al contrario!), se uno dei due annullasse la propria identità, la propria individualità, la propria personalità e la propria originalità per assumere e conformarsi a quella dell’altro.
Lasciatemi proporre un ultimo esempio. Siamo maestre di scuola dell’infanzia, abituate a maneggiare le tempere e tutte sappiamo bene come si formano i colori composti: se vogliamo ottenere un nuovo colore, un bel verde ad esempio, dobbiamo mescolare due colori ‘diversi’ fra loro: il blu e il giallo. Se uno dei due colori perdesse la sua tinta e si uniformasse all’altro, non uscirebbe mai il verde che cerchiamo. Se il blu non fosse più blu ma divenisse giallo o, ancor peggio, si diluisse al tal punto da divenire acqua, al posto del verde, rimarrebbe solo il giallo iniziale o, peggio, uscirebbe un giallo annacquato e sbiadito… Perché ci sia unione, combinazione i due colori devono essere tali: il blu deve essere blu, il giallo deve essere giallo. E anzi: più giallo e blu sono belli e luminosi in se stessi e più sarà bella e luminosa la loro combinazione.
Capita spesso, invece, che noi insegnanti, proprio in nome dell’apertura interculturale, e dunque con le migliori intenzioni, … “per eccesso di zelo”, finiamo con l’abdicare alla nostra identità culturale. Per timore di offendere qualcuno, tornando al nostro esempio, annacquiamo il nostro bel “blu” fino a farlo divenire del tutto “acqua”. Eppure così non solo tradiamo noi stessi e la nostra storia, privandoci del nostro ‘colore’, ma, sottraendoglielo, ne priviamo pure l’altro. E impediamo alla base, quindi, anche la relazione, l’incontro, la combinazione, il confronto con lui.
In questo modo, la nostra non è “accoglienza” dell’alterità. È negazione di noi stessi, “suicidio”.
Ora, il Natale, indipendentemente dal nostro essere o meno credenti, costituisce uno dei punti di riferimento centrali per nostra cultura: in occidente non possiamo non dirci tutti cristiani, anche essendo atei, ripeteva con orgoglio la laicissima Oriana Fallaci. Non possiamo spiegare il calendario, che inizia a contare gli anni a partire da quel Natale di 2000 anni fa. E perfino le nostre “profanissime” ferie coincidono con molte festività religiose. Ma non possiamo spigare le nostre opere d’arte, non possiamo spiegare la letteratura, non possiamo comprendere la pittura, la storia, la musica classica, la filosofia, ecc... Siamo impregnati di cristianesimo fin nel midollo! Ne è impregnato perfino il nostro linguaggio con molti modi di dire. Che lo vogliamo o meno, che ne siamo consapevoli o no, ne è impregnato pure il nostro modo di pensare!
Per parlare a scuola delle feste natalizie possiamo ricorrere a Babbo Natale e alla Befana, alla neve e alle palline colorate, alle grandi tematiche dell’amore universale e della famiglia, all’alberello e ai regali, alle lucine e agli agrifogli, alle renne e alle stelline, … ma se non raccontiamo della nascita di Gesù Bambino, non spieghiamo un bel niente! Impediamo perfino la comprensione del ‘nome’ della festività! Né possiamo esimerci dalla spiegazione del Natale, …se non altro per giustificare ai bambini le vacanze. Se non altro per dare loro quel minimo degli strumenti necessari per comprendere e decodificare la realtà che li circonda. Se non altro perché abbiamo il compito di consegnare ai nostri bambini gli strumenti per leggere, comprendere e vivere la nostra cultura. Se non altro perché non possiamo ignorare l’obiettivo della “fruizione dei sistemi simbolico culturali” prescritto dalle Indicazioni e ripetuto dalle Raccomandazioni. Se non altro perché non possiamo sottacere l’obiettivo finale della “consapevolizzazione delle radici storico-giuridiche, linguistico-letterarie e artistiche che ci legano al mondo (…) giudaico-cristiano, e dell’identità spirituale e materiale dell’Italia e dell’Europa” stabilito dal Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del primo ciclo. Realizzare il presepio, secondo una nostra millenaria tradizione, o proporre una recita natalizia dove non compaiano solo stelline e fiocchi di neve, ma anche pastorelli e sacra famiglia, insegnare una poesia che nomini Gesù Bambino, non solo non è un atto irrispettoso nei confronti di alcuno, ma, in un certo qual senso, nella misura in cui concorre ad accompagnare i bambini verso la comprensione dell’origine e del centro di una festa di tanto rilievo per la nostra società, costituisce addirittura un nostro ‘dovere’.
copyright © Educare.it - Anno VII, Numero 2, Gennaio 2007