- Categoria: Monografie
- Scritto da Giorgio Amato
La guerra preventiva come dottrina pedagogica. Spunti sulla vicenda delle torture in Iraq
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La storia di vita, che solitamente appare un insieme di percorsi privati, a volte si arresta in un lampo che rivela le sembianze della grande storia collettiva. Allora il fermo immagine che ne deriva sembra riassumere e rendere di colpo evidenti i legami tra il singolo e un orizzonte più ampio; quello che si era soliti attribuire a tratti, decisioni e responsabilità del privato trova una lettura ulteriore come variante di una grande storia dalle origini e dalle conseguenze che eccedono la portata individuale.
La fotografia, proprio come artificio che permette di fissare nel tempo un attimo, e di racchiudere un volto e un gesto in una cornice socialmente trasmissibile, rappresenta bene il condensarsi di questo incrocio tra privato e pubblico.
L’abitudine di conservare momenti particolari della vita privata, il matrimonio, le ricorrenze, le vacanze o le cerimonie, chiama altri a partecipare a quei ricordi, come testimoni differiti che, sfogliando l’album fotografico, potranno condividere in qualche modo quella successione temporale. Il soggetto che si pone davanti allo scatto fotografico compie così un gesto che socializza una memoria autobiografica, la sottrae all’appartenenza esclusiva per consegnarla a sguardi ulteriori. La stampa e la comunicazione di massa attingono in quantità a questo incrocio tra memorie: un articolo che riporta un fatto di cronaca nera sarà illustrato dalle foto del reo o della vittima, e spesso ci sorprendiamo nel notare che i volti sembrano ricalcare perfettamente i ruoli, come se fossero scelti da un regista occulto e competente.
I grandi fatti della storia collettiva sono anch’essi cristallizzati attraverso foto che ne diventano il simbolo. La bambina vietnamita che corre sotto le ustioni del napalm, il bimbo del ghetto che alza le mani in segno di resa, il miliziano colpito a morte nella guerra civile spagnola, i tre giovani studenti che corrono sparando in una via di Milano: esempi di quella particolare alchimia che condensa in uno scatto storie private e collettive, o viceversa incarnazioni della grande storia attraverso la rappresentazione di individui che, più o meno per caso, si trovano a prestare corpo e movimento a una lettura che eccede l’intenzionalità dei protagonisti.
È per questo che alcune foto restano nella memoria collettiva e ne scandiscono periodi e appartenenze. Da un punto di vista pedagogico, e precisamente attraverso la particolare angolatura dettata dall’approccio autobiografico, la fotografia rende possibile attraversare il ponte che congiunge la memoria del privato a modelli, dispositivi e ordini di più vasta portata.
Tra la serie di tristi foto che hanno documentato le torture in Iraq, una delle più evocative è senz’altro quella che mostra la soldatessa americana, sorridente, col prigioniero al guinzaglio. Foto davvero degna di assurgere a compendio di una politica; iconografia neanche tanto involontaria di un rapporto che sottolinea senza equivoci la distinzione tra dominatori e dominati; snodo cruciale di vicende che sono fatte di carne, corpi tesi nell’atto di sopprimere o di resistere, umori che riportano i tagli e le lacerazioni di antiche memorie mai ricomposte. Effige simbolica di un modello: modello umano, psicologico, culturale e politico. Archetipo senza tempo e, assieme, documento storico. Ma anche, e soprattutto, dispositivo pedagogico [1], architrave di un sistema teso a formare menti, a intessere rapporti, a delimitare saperi e competenze.