- Categoria: Immaturità, ritardo nello sviluppo
- Scritto da Ombretta Pinciroli
Fobie e remissività
In primo luogo voglio ringraziarvi per l'opportunità che offrite con il sito.
Ho 36 anni e sono mamma di due bambini, uno di 5 anni e uno di 3 anni. Sono molto preoccupata per il comportamento tenuto da mio figlio maggiore Cristiano.
Prima di parlare di lui, vorrei dare alcune notizie della nostra famiglia, e di me in particolare, che potrebbero essere utili a capire la situazione. Sento questa esigenza, perché ho consultato una psicologa che mi ha sempre riferito che qualsiasi disagio è sempre da ricondurre ai genitori e al contesto familiare. Io ho un lavoro intellettualmente impegnativo e stressante (sono magistrato) ma che, tuttavia, svolgendosi senza grossi limiti di orario e potendo in gran parte essere svolto in casa, mi consente di trascorrere una buona parte della giornata con i miei figli e con mio marito. I bambini tornano dalla scuola materna intorno alle 16 e da allora io cerco di essere il più possibile disponibile. Mio marito è anch'esso un impiegato pubblico e da un anno a questa parte è anche lui in famiglia sin dal pomeriggio (prima si occupava di politica e si assentava spesso). Le nostre famiglie di origine sono vicine e spesso i nonni vengono a casa. Mio padre, in particolare è molto attaccato ai bambini, telefona continuamente e li vizia con regali.
Come mamma forse sono un po' permissiva, e "sostitutiva", nel senso che li vesto (ma a cinque anni un bambino deve vestirsi da solo?), li lavo o comunque sto in bagno per controllare se si lavano bene (soprattutto i denti), a volte li imbocco (ma soprattutto il piccolo). Mio marito dice che "mi faccio prendere la mano" perché, ad esempio, cedo se non vogliono farsi vestire dalla ragazza che mi aiuta la mattina, e non riesco a far mangiare il piccolo che è molto capriccioso col cibo, mentre con il papà non fa troppe storie. Non riesco, in sostanza, a farmi molto ubbidire, per quanto possano essere ubbidienti bambini di quella età.
Tengo a dire che siamo una famiglia unita, e tra me e mio marito, ma anche con la famiglia c'è affetto reciproco, e sicuramente manifestato ampiamente anche ai bambini.
Ciò nonostante Cristiano ha diversi problemi comportamentali: innanzitutto (questo è stato il primo degli atteggiamenti che mi hanno preoccupato) ha un vera fobia per i palloncini, o meglio per il rumore dei palloncini che scoppiano, per le bottiglie di spumante stappate, per i petardi. Questa situazione è diventata un vero incubo per il bambino, che per tale motivo non vuole andare alle feste di compleanno, non vuole usciere durante le feste. Tale comportamento è iniziato circa due anni fa, e ho cercato in tutti i modi di trovare un modo di fargli passare questa assurda paura, credendo che fosse comunque una cosa passeggera, ma così non è stato. Non so, peraltro, ricondurre l'inizio di queste paure a un episodio particolare; anche da piccolissimo lo infastidivano i rumori forti come quello dell'aspirapolvere o del frullatore (ora non più).
A parte ciò, che forse è solo un campanello d'allarme per qualcosa di diverso, il bambino è molto attaccato a me, e non lo nasconde con il padre, mi fa molti complimenti e mi da molti baci. Ha un atteggiamento molto remissivo, si fa picchiare dal fratello o da altri bambini senza accennare alcuna reazione. Se a volte lo sgrido, mi invita a picchiarlo o a mandarlo a nanna (ma io non l'ho mai fatto!!!). Ha iniziato a andare all'asilo già a un anno, ma a scuola, ora fa l'ultimo anno della materna, ha difficoltà a integrarsi, così come anche alle feste, o al mare, e di solito si isola e gioca per conto suo; la maestra mi ha riferito (ma lo avevo constatato anche a casa) che fino a poco tempo fa si rifiutava di disegnare, e, se invitato a farlo risponde di non saperlo fare. Ora ha iniziato a fare qualche disegnino, ma si tratta di disegni molto più infantili rispetto a quelli dei bambini della sua età: ad esempio ancora disegna le persone con la testa e gli arti direttamente attaccati a questa.
Ho poi notato che a scuola, se la maestra gli chiede qualcosa, qualsiasi cosa, anche la cosa più stupida alla quale a casa risponderebbe senza problemi, apre la bocca e assume una espressione ebete, eppure, e ciò non lo dico perché sono sua madre, il bambino è assolutamente normale e intelligente! Sto incominciando a pensare che forse dovrei cambiare scuola, anche perché la mattina fa un po' di capricci ed è visibilmente felice se rimane a casa. Tuttavia, non posso dire nulla della scuola che frequenta, e delle sue maestre, che mi sembrano intelligenti e sensibili.
Però ho l'impressione che lui ormai si sia convinto di non potere fare o sapere nulla e che solo cambiando ambiente potrebbe partecipare di più.
Per cercare di scuoterlo, l'ho iscritto in piscina e a lui piace (ama moltissimo l'acqua) ma ancora è presto per vedere se servirà. Intendo iscriverlo anche in palestra.
Devo però aggiungere che, fino allo scorso anno, frequentava una ludoteca e quindi stava con altri bambini, quindi non credo che il suo problema sia di solitudine.
Vuole spesso raccontate le favole e ama molto i cartoni in cassetta, soprattutto di Disney, che vedrebbe continuamente, e che sono l'unica cosa che sembra farlo veramente felice, le ha praticamente imparate a memoria e spesso ne recita alcune parti adattandole alle diverse situazioni!
Cristiano, inoltre, è molto vivace e non fa altro che correre di qua e di là, anche mentre mangia ha bisogno di toccare o fare qualcosa. Per questo suo continuo movimento, sembra avere difficoltà di concentrazione, anche quando in casa mi siedo con lui per vedere se con me vuole disegnare o fare qualche altra attività.
Tali atteggiamenti sono comunque emersi soprattutto dopo la nascita del fratellino.
Il fratellino non ha nessuno di questi comportamenti. E' attaccato a me quanto al padre, non ha strane paure, gioca normalmente con gli altri bambini (spesso se siamo fuori, ad esempio al ristorante, cerca altri bimbi, e me li porta per la mano presentandomi i suoi nuovi amici).
Io non so cosa fare, credo che lui percepisca la mia preoccupazione, ma non so a chi rivolgermi!!!
Forse sono stata un po' confusa, datemi un consiglio, per favore: ho ragione di preoccuparmi?
Gentile Francesca,
Ho letto e riletto, con molta attenzione, la sua lettera così piena di preoccupazione ma anche d'interessanti e ricchi spunti di riflessione che andrebbero sviluppati con gradualità temporale e relazionale.
Innanzi tutto ho colto come si sia già attivata per ottenere un parere specialistico, sull'esperienza che sta vivendo con il suo bambino, quello psicologico.
Quanto mi appresto ad offrirle è la possibilità di esercitare uno sguardo diverso rispetto a quello da lei sino ad oggi sperimentato.
Innanzi tutto proverei a dare una diversa lettura di quanto le ha detto la psicologa "che qualsiasi disagio è sempre da ricondurre ai genitori e al contesto familiare".
La "predisposizione" dei bambini a determinate problematiche può divenire un reale disagio quando ciò non è colto come una possibilità, un'opportunità nella relazione educativa ma come una problematica riguardante il bambino.
Interrogarsi su "che genitore sono", "cosa posso fare per essere un genitore capace di trattare da un punto di vista educativo una difficoltà del bambino", "cosa significa essere competente come genitore", "come mi vede mio figlio", sono le opportunità che questi momenti di difficoltà, di preoccupazione offrono. Un esempio di opportunità è dato anche dal nostro stesso incontro, in questo "ambiente". Quali nuovi continenti conoscitivi potrà aprire? Quali elaborazioni della propria esperienza potrà stimolare? Quali nuovi interrogativi? Quali azioni potrà promuovere?
Ecco dunque che la domanda è "come si può trattare il problema che vivete da un punto di vista educativo?" Quali strumenti e atteggiamenti educativi, capaci di stimolare e predisporre un dispositivo educativo all'interno della famiglia, si possono adottare?
Andiamo per ordine.
* La fobia del piccolo: "ho cercato in tutti i modi di trovare un modo di fargli passare quest'assurda paura".
Senza addentrarci nelle motivazioni psicologiche che possono aver influito su questo problema possiamo però soffermarci, visto la pertinenza del campo, sull'interpretazione che ha dato di questo fenomeno e sugli interventi educativi, e non, che ha ritenuto dover intraprendere per estinguere la fobia.
Vede, una strada per affrontare il problema potrebbe essere quello di considerare diversamente il modo di superarlo.
In genere si pensa che risolvere una difficoltà nelle relazioni tra sé e il modo, tra sé e sé, coincida con l'estinguere il problema. E tutto quello che si vive, si pensa, si agisce va in questa direzione.
Peccato che anche il sole scotti, e il fuoco bruci ma mai nessuno ha pensato di spegnere l'uno o bandire dalla civiltà l'altro.
La storia dell'uomo ha mostrato la grande capacità dello stesso di tradurre lo svantaggio in possibilità, perché il vincolo riconosciuto ha sempre portato alla ricerca di nuovi orizzonti di significato.
Dunque, verso quale prospettiva ha indirizzato i sui interventi? Verso l'estinzione della fobia o verso la risignificazione della stessa all'interno della vita relazionale del bambino?
In quali occasioni manifesta questa fobia? Ogni volta che sente il rumore forte? Solo quando sente rumori legati a festeggiamenti? Come reagisce? Chi cerca? Chi gli corre incontro? Quanto tempo dura il suo spavento? Verbalizza questa paura e le sensazioni? Per quanto tempo dopo lo spavento necessita della presenza di qualcuno? ( la mamma?) Quale tipo di interpretazione del problema gli avete offerto? Quale tipo di interpretazione vi offre? Chi ha fobia di questa fobia?
* Diversità di comportamento tra scuola materna e ambito famigliare: "Ho poi notato che a scuola, se la maestra gli chiede qualcosa, qualsiasi cosa, anche la cosa più stupida alla quale a casa risponderebbe senza problemi, apre la bocca e assume un'espressione ebete, eppure, e ciò non lo dico perché sono sua madre, il bambino è assolutamente normale e intelligente! "
Quale significato si attribuisce al fatto che il bambino a scuola, nella relazione con le insegnanti, sembra non essere in grado di gestire la relazione con queste mentre a casa non presenta problematiche analoghe?
Innanzi tutto verifichi con le insegnanti se quanto da lei notato avviene da molto tempo, in qualsiasi circostanza o meno della vita di scuola, in assenza e/o presenza della mamma. Si tratta di capire se questo "blocco" nella relazione è strettamente legato al tipo di rapporto che ha con le sue insegnanti o se esibire le sue modalità di relazione davanti alla mamma lo condiziona.
Chiedere dunque la collaborazione delle insegnanti, anche in termini di esplorazione condivisa del problema, può essere un primo passo. Tematizzano quanto accade? E com'è la loro relazione con il bambino (parlano col piccolo di questi episodi?, cosa emerge? come viene gestito quello che emerge? Si chiude in questi frangenti o smette di essere "ebete"?). Durante o dopo gli episodi da lei osservati quale possibilità di elaborazione dell'accaduto è stato offerto al bambino da lei o dalle insegnanti? Quali strade per imparare a gestire la relazione gli sono state proposte? Quali frasi ha usato nei confronti del bambino durante l'episodio?
Cosa ha risposto il bambino? Cosa è cambiato?
Capire in quali circostanze il bimbo manifesta queste difficoltà può essere un primo aiuto per capire l'ambito relazionale in cui intervenire.
* Obbedienza: "Come mamma forse sono un po' permissiva, e "sostitutiva" nel senso che li vesto (ma a cinque anni un bambino deve vestirsi da solo?), li lavo o comunque sto in bagno per controllare se si lavano bene (soprattutto i denti), a volte li imbocco (ma soprattutto il piccolo). Mio marito afferma che "mi faccio prendere la mano" perché, ad esempio, cedo se non vogliono farsi vestire dalla ragazza che mi aiuta la mattina, e non riesco a fare mangiare il piccolo che è molto capriccioso col cibo, mentre con il papà non fa troppe storie. Non riesco, in sostanza, a farmi molto ubbidire, per quanto possano essere ubbidienti bambini di quella età."
L'obbedienza, o meglio il farsi obbedire sembra essere uno dei problemi più grossi che accomuna i genitori di bambini delle più disparate età. Questo è sicuramente un elemento che offre non poche possibilità di riflessione; prima fra tutte può essere illuminante provare a pensare al rapporto Richiesta di Obbedienza e Offerta di Obbedienza /Disobbedienza non solo come dinamica di forza, dove si gioca la capacità di "potere" del genitore o del bambino, ma come luogo in cui la relazione educativa si esibisce.
Il problema dell'obbedire e farsi obbedire può essere visto all'interno di un'esperienza di relazione condivisa tra il genitore che insegna e il bambino che impara.
Impara cosa? Impara ad ascoltare i consigli del genitore, le sue argomentazioni, impara a cogliere i nessi di causalità che questo gli offre nel richiedergli determinate prestazioni, impara a sperimentare e a elaborare la possibilità che i vincoli offrono, a provare ad esercitare l'autonomia che pensa di poter avere all'interno di una relazione specifica e a misurarne i costi, impara a gestire la fatica e l'incanto della relazione.
E il genitore insegna cosa? Insegna come ci si prende cura di chi ha bisogno di imparare a vivere, insegna come si possono gestire le proprie insicurezze nella relazione, come si sia capaci di sopportare la sofferenza di "provocare" sofferenza con un no al proprio figlio anche tematizzandola, insegna che vi sono delle priorità, insegna che la relazione educativa non è sottomissione di uno dei due all'altro ma relazione tra uno che insegna e l'altro che impara.
L'obbedienza è qualcosa che non è innata e che necessita di apprendimento. Perché obbedire, a chi obbedire, quando obbedire, quanto obbedire sono tutte domande che spingono alla continua elaborazione e risignificazione della relazione genitore/bambino.
Quando chiediamo ai bambini di obbedirci cosa in realtà gli chiediamo? Di fare quello che gli si dice senza fiatare? Ascoltare un consiglio e eseguirlo? Accogliere un consiglio e confrontarsi col genitore su questo? Cosa gli offriamo? L'accoglienza della loro disobbedienza come un'opportunità di esplorare gli apprendimenti che favorisce?
E poi quanto veramente il genitore ritiene sia giusto infliggere la sofferenza dell'obbedienza ai propri figli? Quanto come genitori si riesce a tollerare la sofferenza che procura dire un no e mantenerlo? Quanto questa sofferenza è data dal fatto che si privilegiano alcuni canali interpretativi rispetto ad altri?
Perché cede quando i bambini non vogliono farsi vestire dalla ragazza che l'aiuta? Perché acconsente a "sostituirsi" ai bambini quando la interpellano? Quale dipendenza i bambini le richiedono e quale dipendenza vuole che i suoi bambini abbiano da lei?
L'autonomia non si dà, l'autonomia si prende ed aiutare a gestire al meglio la propria autonomia passa dal proporre dipendenze capaci di evolvere, ed evolvere, cambiare non è mai indolore.
Lasciare che il figlio non sperimenti il genitore come vincolo ma si senta padrone del proprio desiderare può comunque impedire l'esplorazione di un'autonomia matura, mediata dalla relazione e dai costi che la relazione comporta.
A cosa serve obbedire ma ancora prima a cosa serve insegnare ad obbedire?
Come riporta, vi è diversità di comportamento da parte dei bambini nei confronti suoi e di quelli di suo marito, diversità perché diverse sono le relazioni che offrite, diversi sono i valori che veicolate, diversi sono i significati che attribuite alla vostra relazione con loro, diversi sono i vostri bisogni e la lettura che fate dei bisogni dei bambini: è importante che facciano (papà) è importante che siano capiti (mamma). Entrambe queste posizioni sono valide e importanti per la crescita dei piccoli ma bisogna sempre chiedersi a cosa possono portare se vengono assolutizzate, quali esperienze e apprendimenti propongono se non vengono mediate da processi di relativizzazione.
* Socializzazione.
Il concetto di socializzazione, a mio avviso e non solo, è un po' abusato e svuotato di valori e significati. Stare con gli altri sembra più importante dell'imparare a stare con gli altri e dell'imparare a stare anche da soli. Perché socializzare? Con chi socializzare? Come socializzare? Quanto socializzare?
Sono quesiti che spesso si danno per scontato perché scontate sembrano essere le risposte.
Se il suo piccolo è piuttosto introverso e quindi poco espansivo questo non significa che sia un bambino "a rischio".
Con molta probabilità il suo percorso di crescita si discosta dalle vostre prefigurazioni e dalle descrizioni che si trovano nei testi che si occupano di età evolutiva. Questo non deve condurre a pensare a qualche possibile patologia; ogni bambino ha un suo particolare e necessario percorso da compiere. In questo ambito i genitori e gli educatori possono aiutarlo a comprendere i valori della socializzazione, a predisporre situazioni che gli permettano di sviluppare le sue abilità sociali, possono favorire l'elaborazione delle sue esperienze relazionali, valorizzare le competenze che esibisce anche nello stare da solo.
* Remissività. "Ha un atteggiamento molto remissivo, si fa picchiare dal fratello o da altri bambini senza accennare alcuna reazione. Se a volte lo sgrido, mi invita a picchiarlo o a mandarlo a nanna (ma io non lo ho mai fatto!!!)"
Quale è il senso che il bambino attribuisce a questo suo comportamento nei confronti del fratello e nei confronti della mamma?
Cosa prova durante questi episodi? Quali sono le dinamiche che conducono il fratellino o i compagni a picchiarlo? Come riesce e su cosa a farsi sgridare dalla mamma? E nei confronti del papà o di altri adulti esibisce gli stessi comportamenti che esibisce davanti a lei?
Quando il suo bimbo la invita a picchiarlo o a mandarlo a letto e lei non lo asseconda cosa gli/le dice? Come significa al bambino la sua scelta? Quale interpretazione dà il bambino di questo suo comportamento?
Come mai non ha mai provato a mandarlo a letto come da lui richiesto?
Accogliere la richiesta del bambino di essere punito, osservarne le reazioni, tematizzarle insieme, potrebbe essere il primo passo per aiutarlo a elaborare il suo "senso di responsabilità" e indirizzarlo verso forme più evolute di affrontare il "conflitto".
Gentile Francesca, davanti ad una lettera ricca come la sua e davanti alla richiesta esplicita di aiuto non potevo che risponderle restituendole sotto forma di domande un assaggio di ciò che da un punto di vista educativo l'aspetta.
Chiedersi e chiedere, prima ancora di dare risposte o prefigurarsi scenari all'insegna della patologia, è ciò che le suggerisco di fare. Rivolgersi inoltre ad un consulente pedagogico potrebbe esserle utile per elaborare l'esperienza educativa sino ad oggi vissuta, coglierne i punti di forza e di debolezza, acquisire nuovi strumenti cognitivi e relazionali per gestire le situazioni di difficoltà offerte dal bambino.
Alla sua domanda "ho ragione di preoccuparmi?" desidero risponderle in questo modo: che il bambino abbia o no problematiche di tipo psicologico (ipotesi che ha già esplorato e che credo non abbia portato a formulazione di patologie in atto) quello che mi sembra importante restituirle è che non è sufficiente delegare all'esterno il trattamento educativo di queste situazioni. La piscina, la ginnastica, la psicoterapia potrebbero essere situazioni importanti ma non sostitutive di un costante, consapevole, quotidiano rapporto educativo. Ecco allora che, sì, è importante "pre-occuparsi" di come si possa potenziare in termini educativi la propria relazione con i bambini.
Come ha scritto B. Bettelheim "L'amore non basta". Ma cos'altro ci vuole? Come per gli operatori educativi così per i genitori è auspicabile la possibilità di elaborare la propria esperienza educativa.
copyright © Educare.it - Anno II, Numero 1, Dicembre 2001